Per la prima volta in 144 anni un italiano arriva in finale a Wimbledon
Il torneo di Wimbledon non è mai stato nei pensieri dei giocatori italiani. Né ieri, né oggi. Non che con gli altri tornei dello Slam sia mai andata tanto meglio per i nostri tennisti ma qualche piccolo sfizio, perlomeno al Roland Garros, Pietrangeli prima e Panatta poi se lo erano tolto.
Il problema sembrava un altro. Il torneo lungo, quello di due settimane, tre set su cinque, con il tabellone che comprende 128 giocatori, non è mai appartenuto al nostro Dna. Sempre male in Australia, mai bene all’U.S. Open, con il torneo che si gioca sui campi di Church Road c’era sempre stato una sorta di amore e di odio che non aveva mai portato fortuna.
Nicola amava l’erba ma trovava sempre qualcuno, specie australiano ma non solo, a fermargli la strada. Adriano ha sempre dichiarato che sui campi di Wimbledon non riusciva a giocare il suo miglior tennis.
I suoi amici australiani come Hoad e Newcombe gli avevano spesso spiegato che con il suo talento poteva giocare benissimo sull’erba, che avrebbe potuto ottenere grandi risultati se solo lo avesse voluto. Per loro era solo una questione di mentalità prim’ancora che di tecnica. John lo aveva preso con sé e per diversi giorni gli aveva spiegato come doveva muoversi, quando colpire la palla, ma le lezioni non erano mai state proficue.
Nel 1979 Adriano arrivò a Wimbledon senza alcuna preparazione specifica. Salì sull’ultimo aereo disponibile per arrivare in tempo. Un avversario dopo l’altro e la convinzione salì, il compito da svolgere non sembrava poi così impossibile. Forse aveva ragione il suo amico Hoad che gli aveva sempre detto che se avesse voluto avrebbe potuto vincere Wimbledon. Ma il tempo era ormai passato così come scorse via la grande occasione contro Dupre, avversario modesto per essere un quarto di finale. Il premio, battuto Tanner, sarebbe stato Borg con il quale il buon Adriano si trovava a meraviglia perché era uno dei pochi veramente capace di metterlo in difficoltà con continue variazioni, discese a rete, palle corte, servizi vincenti, colpi a tutto braccio capaci di interrompere il ritmo in top spin del super regolarista.
Ci sono voluti 144 anni perché un italiano tracciasse la strada verso la finale. Troppi se si pensa ai cugini tedeschi, spagnoli, francesi che in quasi 150 anni di storia di Wimbledon qualche titolo lo hanno fatto loro. Gli Stati Uniti e l’Australia, storicamente, appartengono ad un’altra categoria anche se oggi arrancano e il loro orizzonte appare a tinte fosche.
La strada Berrettini aveva incominciato a percorrerla quando nel 2019 vinse inaspettatamente, anche per gli addetti ai lavori, il torneo di Stoccarda. Battè tra gli altri senza perdere un set Kyrgios, Khachanov e in finale Auger Aliassime. Mi stupì la buona posizione in campo, l’efficacia del servizio ma anche la risposta. Sembrava quasi un giocatore da erba e non certo un neofita per quei campi.
Matteo dopo la pesante battuta d’arresto subita a Wimbledon due anni fa dove raccolse pochi game con Federer, quando molti abbastanza inconsciamente speravano in un match alla pari, e la pausa dello scorso anno, quest’anno ha vinto il Queen’s. Il romano veniva dai quarti di finale del Roland Garros dove secondo me è stato l’unico che ha avuto concrete possibilità di battere Djokovic se non ci fosse stata la provvidenziale interruzione al quarto set per il serbo.
Non è facile passare dal rosso al verde. Lui lo ha fatto con gradualità e ha onorato i favori del pronostico, era la testa di serie n°1. Ha dimostrato di essere il più forte del lotto.
Senza battere giocatori straordinari l’allievo di Santopadre è stato bravo a schivare tutte le insidie: il derby con l’amico Travaglia, il match contro l’ex grande campione Murray, quello con il player rognoso e attaccabrighe Evans, la partita con De Minaur che nulla regala e la finale con Norrie, per entrare in un albo d’oro che a leggerlo fa tremare i polsi.
Ha battuto tre britannici a casa loro e nei pochi momenti di difficoltà non ha mai dato l’impressione di poter perdere, ha sempre tenuto i nervi saldi, è stato quasi sempre continuo e capace di variare schemi, velocità e direzione del servizio.
Con la stampa e gli addetti ai lavori che lo davano tra i favoriti, ruolo mai facile da interpretare, è arrivata anche la finale di Wimbledon. Vinti i primi incontri con scioltezza senza mai incontrare avversari di peso, dai quarti di finale l’asticella si è alzata. Ha giocato una partita che ha rischiato di complicare con Aliassime dalla quale ne è uscito con la capacità riconosciuta di dare il meglio nel momento del bisogno e ha vinto la semifinale con Hurkacz, che aveva battuto Federer due giorni prima, in quattro set dopo aver dominato i primi due.
In finale con Djokovic ha giocato un gran match. Matteo ha fatto il meglio che poteva fare, è quasi andato oltre i suoi limiti attuali che saranno superati nei prossimi anni. Un tassello alla volta, torneo dopo torneo.
La distanza che s’è vista in campo non è stata solo tecnica ma ha riguardato la capacità di Nole di proporre il meglio del suo amplissimo repertorio quando ne aveva bisogno. Non ha mai sbagliato una palla importante, di quelle che fanno la differenza.
L’illusione per Matteo è durata poco, giusto il giro del primo set nel quale ha dimostrato presenza e personalità nella capacità di recuperare il parziale in extremis e dominare il tie-break. Poi il match è scivolato abbastanza facile per il serbo.
Nole che aveva studiato insieme al suo team i punti deboli di Berrettini ha reagito immediatamente. Ha risposto da par suo, ha cercato il rovescio in slice, lo ha fatto muovere sul lato del diritto per metterlo fuori posizione.
Matteo rappresenta la punta dell’iceberg di un movimento che sta crescendo mese dopo mese. La semifinale di Sonego agli Internazionali d’Italia dopo 14 anni, la finale di Sinner al Masters 1000 di Miami, le incredibili prestazioni di Musetti, non solo i quarti ad Acapulco ma soprattutto i primi due set vinti con Djokovic a Parigi, dimostrano che c’è una scia lunga di tennisti giovani e giovanissimi, ai quali forse se ne aggiungeranno altri, che ci possono senz’altro far dire che il tennis italiano è, insieme al russo e al canadese, quello che ha gettato le basi migliori.
Credo che i nostri tuttavia negli anni faranno ancora meglio. Mi sembra che ora, a differenza di un tempo, esiste un gruppo di atleti, dirigenti e tecnici che sanno fare team, che si scambiano le informazioni, che uniscono dati e competenze.
C’è insomma una voglia matta di arrivare e di stupire che non si era mai vista. Ora Matteo è consapevole, e gli altri dietro di lui, che ritornare a vincere uno Slam non è impresa impossibile.
I primi a volerlo credo siano Adriano Panatta e Nicola Pietrangeli.