Il torneo di Indian Wells, abitualmente giocato ad inizio primavera – prima del suo gemello di Miami – quando le temperature in California sono ancora temperate, ha sorpreso tutti. L’evento, considerato da molti addetti ai lavori il migliore dell’anno e solo un passo indietro dagli Slam, ha quasi sempre visto vincere e arrivare in finale i migliori. Tanto per capirci Federer e Djokovic l’hanno fatto loro cinque volte, Nadal tre e se torniamo un po’ indietro nel tempo leggiamo nell’albo d’oro i nomi prestigiosi di Becker, Edberg, Sampras e Agassi solo per citarne alcuni.
Fuori dai giochi il serbo, lo spagnolo e lo svizzero per motivi diversi, erano in tanti a pensare a Medvedev non solo come possibile finalista. Era lui a tirare la corsa, con Zverev a seguire. A Tsitsipas, Rublev e Berrettini non credo venissero date molte possibilità di successo. Gli esiti degli incontri hanno sparigliato le carte appena si è incominciato a fare sul serio.
Il primo a farne le spese è stato Rublev che negli ultimi mesi ha deluso. Gioca troppo e soprattutto sempre nello stesso modo. Non ho visto miglioramenti importanti negli schemi d’attacco, nel posizionamento a rete dove continua a essere un pesce fuor d’acqua anche se gioca i doppi con un certo profitto. I principali avversari hanno capito le sue traiettorie e preso le contromisure.
Il grande favorito della vigilia Medvedev si è fatto sorprendere agli ottavi di finale da un ritrovato Dimitrov che ha giocato due set d’antologia nei quali abbiamo, almeno in parte, rivisto quel giocatore che avrebbe dovuto fare strage di Slam nel decennio che è appena trascorso. Purtroppo non è continuo anche se il suo slice di rovescio e la capacità di aprirsi gli angoli con il diritto rimangono uno spettacolo che sanno mostrare in pochissimi.
Hanno deluso anche Tsitsipas e Zverev che secondo copione avrebbero dovuto giocare la semifinale della parte bassa del tabellone. Zverev contro Fritz ha perso una grande occasione. Nei momenti determinanti non ha saputo chiudere. E’ parso di rivedere il tennista che un paio di anni fa aveva dimenticato come si faceva a vincere anche se ero convinto che dopo l’oro olimpico Sascha avesse chiuse le sue paure in cassaforte.
Tsitsipas secondo me sta ancora vivendo lo shock di aversi visto sottrarre il Roland Garros da Djokovic quando credeva di essere molto vicino alla linea del traguardo. E’ vero che aveva vinto i primi due set – il secondo in modo netto – ma da quando il serbo ha cambiato marcia la partita è diventata per l’ateniese una dura scalata da affrontare.
In queste due settimane si sono visti poco anche i ragazzi nati nel nuovo millennio. Chi ha fatto meglio è stato Sinner che tuttavia si è fermato agli ottavi. Auger, Rune, Brooksby, Korda, Nakashima, Alcaraz non sono pervenuti. Per loro non bastano una vittoria o delle finali negli Atp 250, e qualche successo di prestigio. Devono avere il tempo di formarsi, metabolizzare, fare esperienza, abituarsi a essere continui.
Le storie di Zverev, Medvedev, Tsitsipas insegnano che per arrivare in vetta ci vogliono anni e che i precocissimi successi di Wilander, Borg, Becker, Sampras e dello stesso Nadal sono eccezioni che il mondo del tennis di oggi, per vari motivi, non è in grado di ripetere.
Sono così giunti in finale meritatamente, per quello che hanno fatto vedere in questi dieci giorni, due giocatori non quotati.
Il georgiano Nikoloz Basilashvili compirà 30 anni il prossimo febbraio e per arrivare tra i primi venti del mondo ha impiegato molti anni. La prima finale nel circuito maggiore l’ha ottenuta quando aveva già compiuto 24 anni, il primo successo risale all’estate del 2018. Nel 2020 sembrava non essere più capace di vincere, tantissime le sconfitte al primo turno. Quest’anno è tornato a giocare bene anche se il suo tennis al limite del rischio estremo non gli permette di essere continuo.
Ben diverso il percorso del ventiseienne Cameron Norrie, giramondo per vocazione, che è arrivato al circuito maggiore tardi. Ha privilegiato la vita in Nuova Zelanda e gli studi universitari negli Stati Uniti prima di dedicarsi a tempo pieno al tennis professionistico. Quest’anno è stato uno dei giocatori più convincenti del circuito dimostrando che per arrivare vicino alla vetta – è in corsa per un posto alle Atp Finals di Torino – non è sempre necessario essere dei campionissimi a 14 anni, anzi molto spesso è controproducente.
La finale di oggi è la rivincita dei giocatori che non si sono imposti una corsa a perdifiato, a dimostrazione che quando c’è il talento e la voglia di arrivare in alto la vita lascia spesso una porta, che certe volte è un pertugio, aperta.