Nel giugno del 2001 Goran Ivanisevic, trent’anni ancora da compiere, per il mondo del tennis era un giovane pensionato. L’ultimo torneo l’aveva vinto nel febbraio del ’98 nella città natale e tra il ‘99 e il 2000 aveva raccolto una serie di figuracce che lo avevano fatto ormai precipitare oltre la centesima posizione.
Il 2001 era iniziato male per il giocatore di Spalato. A gennaio si era fatto una giornata di volo per arrivare nella caldissima estate australiana e farsi battere nelle qualificazioni dello Slam da uno sconosciuto giocatore di Praga come fosse un tennista qualunque, lui che giocatore qualunque non era.
A differenza degli organizzatori dello Slam australiano che gli avevano rifiutato una wild card, a Wimbledon, dimostrandosi signori riconoscenti, gliela avevano concessa.
Non potevano certo aver dimenticato le tante emozioni che Goran aveva saputo regalare al pubblico londinese.
Delle tre finali giocate aveva deluso solo in quella del ’94 contro Sampras.
Nel ’92 contro Agassi al quinto set ebbe una palla break nel fatidico settimo gioco, nel ’98 contro Pete, arrivò vicinissimo a trovarsi in vantaggio per due set a zero, prima di farsi raggiungere e superare alla distanza.
Nell’edizione del 2001 in cui Federer sul Centre Court urlò per la prima volta al mondo la sua presenza battendo l’uomo dei record Sampras, il pubblico di Wimbledon incominciò a capire che Goran, dopo aver battuto in quattro appassionanti set la n°4 Safin, non si trovava sui campi di Church Road per una gita di piacere.
Contro Tim Henman, il beniamino di casa dai modi gentili che il pubblico sperava di veder premiato dalla Regina come successe a Virginia Wade nel 1977, Goran tornò a giocare come nei suoi giorni migliori: servizi vincenti come piovesse, volée profonde e risposte a mulinare velocemente il braccio come non succedeva da anni.
Contro Tim, Goran fu salvato dalla pioggia quando stava capitolando. Nel quinto set giocato domenica, dopo due giorni estenuanti di stop and go, il player di Split scattò come un centometrista fino a tagliare il traguardo per primo sul filo di lana.
Il tennis è fatto di attimi impalpabili.
Il quinto set della finale contro l’amico Pat Rafter racchiuse in un fazzoletto dai mille colori momenti esaltanti, difficili da definire, impossibili da fermare, dopo che i primi non erano stati così palpitanti.
Fu Goran a tremare per primo quando Pat si trovò per quattro volte a due punti dalla vittoria. Fu il servizio a salvarlo e poi sul 7 a 7 trovò le risposte – una di diritto e tre di rovescio – che fecero girare la partita a suo favore.
Ma fu solo al quarto match point e dopo tre doppi falli – la faccia sghemba del suo colpo migliore – che potette dare sfogo alla sua incontenibile gioia dove, come in un cesto senza fondo, c’erano il sorriso nervoso a pugni alzati, le lacrime, l’abbraccio amichevole e sincero a Pat e la corsa verso la tribuna dove erano presenti suo padre e il team.
In quel metaforico cestino c’era altro ancora: la rabbia per una vittoria – la Vittoria – che pareva non arrivare mai e soprattutto il momento irrefrenabile in cui tutto ciò che sembrava irraggiungibile e negato lo afferrava con la mano ed era suo per sempre.