Agli U.S. Open 2020 Thiem batte Sascha Zverev in una finale thriller.
Il tennis mondiale aspettava il centocinquantesimo Slammer da quando nel 2014 Cilic vinse a sorpresa gli U.S. Open. Fino ad un paio di anni fa si pensava che il predestinato non potesse che essere Sascha Zverev in grado a vent’anni o poco più di vincere i Masters 1000 di Roma, Montreal e Madrid e di battere le migliori racchette alle Atp Finals di Londra.
Quando tuttavia il player di Amburgo scende in campo nei tornei lunghi, dove bisogna saper coniugare l’indubbio talento con un mix di capacità psicofisiche che permettano di ballare meglio degli avversari, è spesso incapace di trovare sensazioni positive perché attanagliato da ansia e mille paure che finiscono per assomigliare più ad una condizione di psicodramma che alla disputa di un match di tennis.
La finale inaspettata raggiunta agli U.S. Open – in semifinale avrebbe dovuto incontrare Djokovic e non Carreño se un attimo di follia non si fosse impadronito della mente di Nole – avrebbe potuto destinarlo alla storia del nostro sport, ma gli dei del tennis gli hanno riservato un finale amaro.
Domenica 13 settembre, quando ha trovato Thiem a contendergli il titolo dopo aver giocato i primi due set come non gli capitava da tempo, deve aver incominciato a pensare di essere ormai vicinissimo al suo sogno da ragazzo e la paura di vincere gli ha stretto il respiro e irrigidito i movimenti.
E’ stato così Dominic Thiem a vincere la 140a edizione degli U. S. Open, che sarà ricordata come quella della bolla nell’anno della pandemia, a tagliare il traguardo che lo farà passare alla storia.
Dominic, ragazzo dai tratti gentili e correttissimo in campo, appartiene alla generazione di mezzo, quella nata tra il ’90 e il ’95, cannibalizzata dai big four. Sulla terra è da anni il numero due, le finali al Roland Garros nel 2018 e nel 2019 sono lì a dimostrarlo.
Fino al 2018 – undici titoli in carriera, otto sulla terra – sembrava destinato ad un curriculum d’eccellenza solo sul rosso.
All’inizio del 2019 ha conosciuto il coach cileno Massù, l’unico tennista capace di vincere l’oro olimpico sia in singolare che in doppio nella stessa edizione.
Da allora The Dominator è diventato un giocatore capace di vincere su tutte le superfici. Non solo il rosso sotto le suole delle scarpe perché il successo di Indian Wells, arrivato all’inizio della loro collaborazione, seguito da quelli di Pechino e Vienna gli hanno dato la fiducia necessaria per considerarsi un giocatore universale.
La fiducia come chiave fondamentale della crescita di Dominic ma non solo, perché i miglioramenti tecnici e tattici da quando l’austriaco è seguito dal coach cileno sono evidenti. Ha abbreviato i tempi di risposta con movimenti sempre potenti ma più corti che gli permettono di essere meno passivo e di giocare in una posizione più avanzata sul campo. Il lavoro giornaliero come impegno e divertimento è stato il balsamo fondamentale per migliorarsi come giovane uomo e come tennista perché i due aspetti percorrono quasi sempre vie parallele, spesso congiunte.
Ha battuto Medvedev in semifinale, il giocatore che la scorsa estate sul cemento statunitense era diventato quasi imbattibile, e con Sacha in finale con il quale amicizia e rivalità si confondono in un unico sentimento di stima reciproca, ad un passo dal baratro ha preso coraggio nonostante gli evidenti problemi fisici.
Ha vinto Dominic o ha perso Sascha? Ci vorrebbero alcune sedute psicoanalitiche per capirci qualcosa di più. Per ora mi accontento di pensare che il ragazzino che a tredici anni stupì Lendl per il suo talento, con tantissima forza di volontà è stato il primo della nuova generazione a rompere, alla quarta finale Slam, il dominio dei magnifici tre per avvicinarsi sempre più alla vetta della classifica mondiale.
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